“La Cura del Dono”

“La Cura del Dono” è l’elaborato che ha ottenuto la menzione d’oro alle finali nazionali del concorso “A Scuola di Dono” organizzato da Fidas Nazionale.
Realizzato dalla 3A Liceo Classico G. B. Beccaria, Licei di Mondovì.
Barla Irene, Bavaresco Margherita, Bergalla Alessandro, Bochicchio Andrea, Borgotallo Giuseppe, Bottero Giulia, Braida Rebecca Artemide, Dalla Mura Aurora, Ellena Eloise, Fachino Anna, Luciano Teresa, Musso Angelica, Occelli Sofia, Pisha Albana, Ravera Rachele, Roberi Filippo, Rossetti Andrea, Sciolla Jacopo.

Guidati dalla referente progetto: Prof.ssa Barbara Ferraro

La cura del dono

Considerazioni linguistiche e antropologiche.

Che cos’è il dono? Se oggi ponessimo questa domanda ad un qualunque essere umano, che appartenga alla società occidentale, probabilmente la risposta ci indirizzerebbe ad un concetto banale, collegato al semplice scambio di beni fine a sé stesso, solo in occasione di particolare eventi. Sembrerebbe, dunque, qualcosa di condizionato dal vigente consumismo: e, in effetti, è così. Ad oggi, infatti, il dono è privo di quasi ogni aspetto più nobile, che vada oltre il mero interesse per l’oggetto e il suo valore materiale, anche se le eccezioni sono molte.
In ogni caso, il valore originario di questa pratica è andato ormai perso. Questo concetto, infatti, è antichissimo, vecchio quasi quanto l’uomo: per essere
sopravvissuto per così tanto tempo, deve aver rivestito un’importanza cruciale, anche su più fronti. Questa storia millenaria si può studiare, inizialmente, dalla linguistica: limitandosi a prendere in considerazione la famiglia degli idiomi indoeuropei, le informazioni così raccolte sarebbero sufficienti a riempire interi libri. Infatti, il nostro termine “dono” può vantare una comune origine con numerose altre parole appartenenti ad altre lingue: “дар” in russo,“δῶρον” in greco antico, “donum” in latino, “don” in francese, ma anche “danaparamita” e “dharmadana” due termini in sanscrito che significano rispettivamente “generosità
trascendente” e “generosità spirituale” e il primo, in particolare, riveste una certa importanza nella religione buddhista, in quanto punto di raggiungimento del percorso di “perfezione di carità” (bodhisattva).
Tutte queste parole, e molte altre, derivano dalla stessa radice indoeuropea “dô” che, al di là delle singole varianti, sta ad indicare, appunto, la dimensione del dono. La grande affermazione di questa radice linguistica è strettamente legata ed è conseguenza di una precisa mentalità, la quale, evidentemente, doveva dare un ruolo di spicco al dono e al suo significato, non solo basato sull’oggetto donato, ma anche e soprattutto sul senso del gesto e delle conseguenze che ciò determinava. Allargando gli orizzonti e prendendo in considerazione culture più lontane geograficamente e, più diverse, possiamo notare caratteristiche comuni. Grazie all’antropologia comparata, possiamo oggi essere abbastanza certi della presenza, non solo nella cultura europea, ma anche in molte altre, di strutture comuni, che riguardano l’uomo in quanto tale, e non in quanto appartenente ad una specifica società.
Particolarmente interessanti e notevoli per quanto riguarda l’analisi del concetto di dono sono gli studi di Marcel Mauss, antropologo, autore di Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche (1925). Egli parte dal presupposto che una comunità si possa definire tale solo in presenza di legami stabili e duraturi, di natura, dunque, essenzialmente pacifica. Secondo la sua tesi, al fine di poterli creare, è necessaria l’instaurazione di un particolare tipo di relazione, proprio quella definita dal dono e dalla sua reciprocità. Egli fa emergere, allora, l’importanza non soltanto del donare, ma anche del ricevere e ricambiare. Esempi a sostegno di tale teoria sono riscontrabili in svariate culture, a partire da quella greca: il dono è, infatti, in grado di creare rapporti inviolabili e sacrosanti, protetti dalla divinità e garantiti nel tempo; relazioni, dunque, che vanno oltre le vite e le vicende dei singoli.
Se proseguiamo l’analisi, scopriamo il concetto di potlach, una cerimonia tipica di molte tribù dei nativi americani, che consisteva nella distribuzione dei beni ai propri ospiti per poter dimostrare la propria ricchezza e garantire la reciprocità. E se volessimo spostarci in Asia, potremmo andare nelle isole Trobriand, ampiamente studiate da Bronislaw Malinowski: qui, infatti, avvenivano i cosiddetti kula, ovvero degli scambi simbolici di beni, che spesso richiedevano lunghissimi viaggi via mare. Il fattore comune a tutti gli esempi presi in considerazione è l’importanza data a queste cerimonie, che erano garanzia di relazioni
pacifiche e durature, ma anche dimostrazione di potenza, innalzamento sociale: afferiscono a rituali sacri e protetti dalla sfera del divino. Il dono è proiezione del donatore nei confronti di chi riceve il dono, momento magico di trasmissione della forza e creazione di forti legami di fiducia. In altri casi il dono ha anche assunto grande importanza a livello spirituale, rappresentando un metodo di innalzamento dell’animo ed un atto eticamente ineccepibile.
Questi aspetti, insieme, contribuirono a plasmare un modello di società basata sulla cosiddetta economia del dono, totalmente opposta alla nostra odierna economia di stampo capitalistico: se, nel primo caso, l’innalzamento sociale è dato dalla elargizione di beni, nel secondo, invece, esso è dato dall’accumulo di beni; il dono, dunque, perde a poco a poco la propria importanza.
Tutte queste considerazioni e molte altre ci inducono a parlare del dono come di un aspetto ricorrente, non solo in molte società, ma anche nell’essere umano.
Evidentemente ci devono essere delle basi biologiche che lo spingano ad essere tale.

Dal punto di vista della biologia.

Il dono, infatti, non è solo un argomento di interesse sociale, ma anche biochimico.
Vari ricercatori hanno intrapreso studi sulle aree del cervello che si attivano quando si compiono determinate azioni. I compiti eseguiti sono stati vari, dalla donazione in beneficenza di cento dollari alla prova che l’altruismo influisce sulla percezione del dolore; ma la conclusione più importante ricavata da ciò è che l’altruismo può svolgere una funzione analgesica. Ma non è solo questa la scoperta che affascina: si è anche dimostrato come essere altruisti attivi un’altra zona del cervello (la corteccia prefrontale ventromediale) legata, tra le sue altre funzioni come il controllo delle emozioni e la pianificazione, anche al significato che noi stessi associamo all’azione. Questo indica che non solo è importante cosa compiamo nel concreto, ma il motivo per cui lo facciamo: è infatti dimostrato che
un’operazione, come la donazione del sangue, ha un impatto diverso su chi la compie, a seconda del fine egoistico o altruistico. L’importanza del donare emerge anche dall’attivazione di altre due aree: la prima associata alla gratificazione, il cui azionamento è legato tanto al donare quanto al ricevere; la seconda all’attaccamento e alla gratificazione sociale, associata solo al donare.
Da ciò si deduce come una delle conseguenze primarie del donare sia la nascita di legami. La responsabile della loro creazione è una molecola, nota con il nome di molecola dell’amore, rilasciata ogni volta che ci rendiamo disponibili ad aiutare qualcuno, causando reazioni biochimiche e fisiche, ma anche emotive, cioè la creazione di ossitocina. Essa è prodotta dall’ipotalamo, struttura dell’encefalo situata alla base del cranio, e gioca un ruolo fondamentale nell’innamoramento, nell’attività sessuale, nel parto, nella fiducia e, soprattutto, quando si parla di donazione, nei legami sociali.
Questo neurotrasmettitore unisce altruismo, felicità e salute dal punto di vista delle reazioni e delle conseguenze biochimiche. È innanzitutto necessario avere presente l’impostazione delle risposte del cervello mammifero: la fight or flight response, la quale comprende sia l’ormone dello stress, il cortisolo, che quello della calma, proprio l’ossitocina. Da queste conoscenze è stato possibile elaborare una teoria secondo la quale il volontariato stimola la produzione di ciò, aumentando il benessere e riducendo lo stress. Di conseguenza, se agire in modo altruistico fa stare fisicamente e mentalmente bene, farlo egoisticamente porta a un incremento del cortisolo e dunque dello stress. Gli effetti negativi però non terminano qui: il costante stimolo della funzione fight or flight, tipica delle situazioni di stress cronico – causata da paura, preoccupazione, ansia o pressione, oltre al fatto che può persino essere una conseguenza della perdita di speranza – determina danni al sistema immunitario, rendendolo più suscettibile a morbi e malattie. Attraverso uno studio su pazienti affetti da HIV si è visto come il volontariato e l’attività altruistica di beneficenza siano correlati ad una prognosi migliore, oltre che ad un minor stress. L’insieme di questi studi dimostra quindi la tesi di partenza: il dono non è solo un concetto ricorrente nella società, bensì una componente biologica caratteristica dell’uomo.

I contributi della psicologia e della filosofia.
È quindi provato che l’altruismo fa bene a chi lo pratica.
Esso viene spesso contrapposto all’egoismo, tuttavia fanno entrambi parte della natura umana e sono spesso intrecciati. Non siamo forse altruisti anche perché questo ci porta felicità? Sul piano emotivo, ciò accade per il warm-glow. Si tratta di una teoria economica, che presuppone, però, basi psicologiche e che è oggi studiata in questo ambito. Scegliamo di essere altruisti per empatia (empathy-altruism hypothesis). Statisticamente, l’uomo tende ad aiutare le persone che conosce, per l’identifiable victim effect, piuttosto che quelle che gli sono socialmente distanti. Compiendo un’azione altruistica per una persona vicina può infatti accertarsi che il bene che ha fatto gli venga riconosciuto. Allo stesso modo, subentra il senso di colpa quando si sceglie un atteggiamento egoistico verso una persona conosciuta (aversive-arousal reduction hypothesis) e l’altruismo fa cessare questa sensazione sgradevole. Secondo un’altra teoria, invece, i comportamenti altruistici sono scelti per via di una emozione più primitiva: la paura. Una persona che si conosce molto probabilmente è consapevole della scelta che gli si prospetta. Può condannare un comportamento egoistico e decidere di punire (social punishment hypothesis). L’altruismo verso un gruppo ristretto di persone, che gli sono vicine è chiamato filantropia microscopica.
Ma vi è anche la filantropia telescopica, verso persone che non si conoscono, e ha orizzonti più ampi, determina una maggiore felicità sul piano morale. Entrambi le forme di filantropia contribuiscono alla felicità su un piano razionale: l’altruismo porta l’essere umano a sentire di aver dato senso e valore alla propria vita. Già Platone, nel secondo libro della Repubblica, si chiedeva perché le persone si comportassero in maniera altruistica. Le motivazioni sono solo di interesse personale? A questa domanda, nel XVII secolo, Hobbes rispose che il donatore dona per fare del bene a sé stesso. Donare è un’azione volontaria e, come tutte le azioni dettate dalla volontà, ha come fine il bene di chi la compie. Teorie come quella di Hobbes sono chiamate egoistiche.
Non mancano teorie contrarie, come quelle di Butler, Hume, Rousseau, Smith: tutti costoro hanno sostenuto che, perlomeno talvolta, la motivazione che spinge gli esseri umani ad azioni altruistiche è genuinamente altruistica.
Da un punto di vista psicologico, le persone che sembrano avere una predisposizione innata al dono spesso sfociano nel sacrificio di sé, mettendo il bene degli altri sempre prima del proprio. Quindi l’altruismo va praticato con autocontrollo e intelligenza. È importante esercitare un altruismo efficiente, cercando di massimizzare il bene. Per una reazione psicologica, più ci sembra di poter fare la differenza, più pratichiamo l’altruismo. Purtroppo, però, l’essere umano tende ad agire per conformismo: se gli altri non contribuiscono, una sola azione altruistica non ha conseguenze che possano davvero cambiare qualcosa, quindi perché compierla? Ma la reazione a catena si può svolgere anche in senso opposto: praticando l’altruismo verso una persona, questa può essere influenzata e compiere a sua volta più azioni altruistiche. Ricevere un dono che soddisfa le nostre aspettative al riguardo, oppure riceverne uno inatteso ma molto gradito, provoca emozioni molto profonde che si possono radicare nell’inconscio, condizionando positivamente la persona, che si dimostrerà in futuro più propensa a donare.
L’importanza di un dono sui generis: il sangue.
La donazione del sangue è un gesto totalmente gratuito e di assoluta solidarietà: si dona il sangue, infatti con il solo obiettivo di aiutare il prossimo. Si compie questo gesto senza sapere chi sarà il fruitore finale. In ogni paese la richiesta di sangue è elevatissima: in Italia, ad esempio, abbiamo un fabbisogno di circa due milioni e trecentomila unità di sangue e, dato che l’unico modo che abbiamo per ricavarlo è la donazione, sarebbe necessario che ogni cittadino in grado di soddisfare i requisiti richiesti compisse questo dovere civico e morale.
Per donare è sufficiente essere maggiorenni, avere un peso non inferiore ai cinquanta chili ed un organismo in perfetto stato di salute. Chiunque desideri donare il sangue per la prima volta dopo i sessanta anni può essere accettato a discrezione del medico responsabile della selezione. Inoltre non dobbiamo avere nessun comportamento a rischio che possa compromettere la nostra salute e quella di chi riceve il nostro sangue. L’idoneità alla donazione del sangue viene stabilita da un medico mediante un colloquio, una valutazione clinica e una serie di esami di laboratorio previsti per garantire la sicurezza del donatore e del ricevente. La donazione di sangue intero è la più conosciuta, richiede circa dieci minuti e può essere effettuata ogni tre mesi: tuttavia questo tipo di donazione non è l’unica possibile. Si può, infatti, donare anche solamente plasma che viene però effettuato con un prelievo che può richiedere anche cinquanta minuti, poiché grazie ad un separatore cellulare il plasma viene diviso dalle altre componenti sanguigne.

E ora… lasciamo la parola alla letteratura.
Dopo aver analizzato brevemente il concetto del dono, da molteplici punti di vista, abbiamo voluto inserire quattro racconti, per esemplificare l’importanza del tema in diverse culture e, soprattutto, in vari periodi storici. I soggetti, infatti, appartengono a storie, rispettivamente, mitiche, religiose e reali, e sono famosi, ancora oggi. Il pretesto che abbiamo deciso di utilizzare, per giustificare la presenza di questi racconti, è un dialogo tra un essere umano e Qualcun altro, un’entità interessata a comprendere la mentalità dell’uomo, così ricca e controversa, capace di mettere alla luce cose bellissime, come la donazione, addirittura del sangue o di parti del nostro stesso corpo, ma anche cose tremende, come la guerra, le stragi.
Ecco, dunque, che il sangue diventa nodo concettuale: simbolo, insieme, di legame fortissimo e vicendevole.
Come ultimo racconto, abbiamo inserito le vicende di un uomo contemporaneo qualunque, affetto da diversi problemi che trova il modo di risolvere a seguito di un risveglio etico: donare significa fare anche del bene a sé stessi, oltre che aiutare gli altri.

Introduzione al dialogo.
“Dove… dove sono? Prima ero nella mia città, stavo concludendo un lavoro… ma di punto in
bianco, eccomi qua. Nel vuoto. Intorno a me soltanto ombre, nero e vuoto, che si estendono
fino all’infinito. Non capisco…”.
“Non è importante che tu capisca, umano. Anzi, potrebbe costarti ben molte fatiche farlo: siamo in una dimensione parallela alla tua amata Terra, perché ci troviamo nel mio mondo. Qui, non esiste né il concetto di spazio, né quello di tempo: siamo sospesi in questo
non-luogo nel non-tempo, soltanto io, te e nessun altro”.
“Mi hai portato qui per uccidermi, vero? Perché non farlo sulla Terra, così da non sprecare tutte le energie che hai usato per portarmi nella tua dimensione?”.
“Non disperare, umano. Non ho intenzione di ferirti, né di ucciderti: sono azioni per le quali io e i miei simili non proviamo alcun tipo di attrazione; non è infatti una nostra usanza spargere sangue solo perché vogliamo divertirci, come invece fate voi”.
“E allora perché portarmi qui, in questo nulla?”.
“Per curiosità, umano. Ho delle domande da porti, a proposito dei tuoi simili”.
“Intendi… intendi l’umanità? Hai delle domande su di noi?”.
“Siete delle figure molto interessanti, voi uomini e donne. Avete dei comportamenti a dir poco… peculiari. Forse un po’ stravaganti, devo ammetterlo. Ma mi incuriosite. Sai, vi ho osservati per molto tempo, cercando di capire le ragioni per cui vi comportate in un certo modo e non in un altro, perché avete certe reazioni di fronte a determinate situazioni… ma siete fin troppo complessi per me. Quindi, ho deciso di sottrarti un attimo dai tuoi impegni quotidiani, per portarti in questo luogo, in cui non ci sarà nessuna fonte di distrazione che possa interrompere le tue risposte alle mie domande. Possiamo procedere?”.
“Mi vedo costretto a ubbidire… come ti dovrei chiamare?.”
“Al contrario della vostra società, noi, in questa dimensione, non ne abbiamo bisogno e, quindi, non ci viene dato un nome alla nascita. Quello che è importante per noi è l’essere un’entità, perché, in effetti, esistiamo e viviamo davvero. Sentiti quindi libero di chiamarmi Entità o Qualcun altro… Chiusa questa parentesi di formalità, possiamo finalmente concentrarci sul motivo per cui ti ho convocato qui.
Ho molti dubbi a proposito della vostra società, ma mi limiterò a porti soltanto una piccola parte di tutti i quesiti che mi turbano. In diverse occasioni ho notato che vi scambiate dei doni, che possono essere oggetti preziosi ma anche parti del vostro corpo, come il sangue o
addirittura interi organi. Perché? Perché lo fate?
E’ davvero così importante, per voi, arrivare a donare, quindi a sacrificare in un certo senso, una parte del proprio corpo, per il benessere altrui?”.

La perenne attualità di Omero.
“Sai, il concetto di dono è stato sempre molto presente e importante per l’umanità, a partire dalle culture antiche. Posso farti un esempio ricorrendo a un episodio dell’Iliade, un poema greco che narra di quando due nemici, al posto di combattere, si scambiano dei doni.
Lo sfondo di questo evento è il campo di battaglia su cui erano stati uccisi molti eroi, con gli eserciti degli Achei e dei Troiani pronti a combattere l’uno contro l’altro”.
“Quindi in ogni epoca la guerra ha portato allo spargimento di sangue per voi?”.
“Purtroppo, da sempre l’uomo intraprende guerre che non si possono mai dire vinte, perché si perdono molte vite da entrambe le parti.
Ora ti spiego meglio: la guerra di Troia era ormai giunta al suo decimo anno, e sul campo di battaglia si era già versato molto sangue.
Ormai sia l’esercito acheo sia quello troiano erano stremati, ma dovevano continuare a combattere per cercare di vincere. Tuttavia, ad un certo punto della guerra, Glauco, un alleato dei Troiani, e Diomede, celebre eroe greco, si ritrovarono l’uno di fronte all’altro pronti a sfidarsi in duello in mezzo ai due eserciti schierati. Il primo a prendere la parola fu Diomede, che si rivolse a Glauco chiedendogli chi fosse; infatti aveva bisogno di assicurarsi di stare per combattere contro un mortale, e non contro un dio con il quale non avrebbe avuto nessuna possibilità. Glauco cominciò a narrargli la storia della sua nobile stirpe di eroi. Appreso ciò, Diomede conficcò la lancia nel terreno, dicendo a Glauco di essere legato a lui grazie all’ospitalità: il nonno di Glauco aveva ospitato quello dell’acheo e si erano scambiati dei doni, il primo una cintura splendente di porpora e il secondo una coppa aurea a doppio manico. I due scelsero quindi di abbassare le armi e scambiarsele come doni ospitali in segno di rinnovamento dell’ospitalità tra le due stirpi”.
“Così non hanno combattuto perché hanno scoperto che le loro famiglie si erano fatte dei regali ed erano diventate amiche?”.
“Essenzialmente sì. Vedi, nell’antica cultura greca l’ospitalità era molto importante e in essa un aspetto fondamentale era lo scambio di regali. Infatti era presente una forma rituale di accoglienza dell’ospite, che prevedeva come azione finale lo scambio reciproco di xenia (doni ospitali). Era talmente importante che a Zeus, il dio più importante, era stato attribuito anche l’epiteto xenios, ovvero protettore di chi chiede ospitalità”.
“Interessante. Quindi come finisce questo episodio?”.
“Si chiude con una stretta di mano che sostituisce la battaglia. I due, legati da vincoli ospitali, non possono spargere il sangue dell’altro in questa guerra cruenta. Tuttavia, è bene notare che questo non è l’unico esempio, nell’Iliade, di un duello terminato con lo scambio di doni.
Infatti, anche tra Ettore e Aiace sono stati fatti dei regali reciproci. Tuttavia, in questo caso, l’atto del dono viene compiuto al termine dello scontro, finito in parità, mentre nel caso di Glauco e Diomede, i due combattenti non duellano e si scambiano immediatamente doni, per via del loro vincolo di ospitalità”.
“Quindi, per quanto riguarda Ettore ed Aiace, i regali vengono fatti dopo che il combattimento tra i due ha mostrato le loro pari abilità?”.
“Esatto. È però anche bene dire che questi doni saranno legati alla morte di entrambi, poiché la cintura regalata da Aiace a Ettore, sarà utilizzata da Achille per scempiare il corpo dell’eroe troiano, mentre la spada regalata da Ettore ad Aiace sarà utilizzata da quest’ultimo per suicidarsi”.
“E anche in questo caso si termina con lo spargimento di sangue”.

Il dono nel Vangelo.
“Ma non è l’unica storia che ti posso raccontare sui doni fatti e ricevuti dagli esseri umani.
Conosci il Vangelo, entità?”
“Come non conoscere il libro più celebre della storia dell’uomo?”.
“Ebbene, lì si narra che nell’anno zero i Magi, misteriosi astrologi provenienti dall’Oriente,
stessero vagando per la Palestina, quando videro apparire nel cielo notturno la stella cometa: allora, guidati dalla sua scia, i tre saggi giunsero alla capitale Gerusalemme, per interrogare Erode, re della Giudea. Gli chiesero <<Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo.>> Ma il re non solo non seppe a che cosa si riferissero: ne restò addirittura turbato, come poteva esserci un altro re in quella terra che non fosse lui? Allora si rivolse a tutti gli scribi ed i sacerdoti della città, che gli riferirono di un’antica profezia, presente nelle loro Sacre Scritture. Inoltre aggiunsero che il nuovo re sarebbe dovuto nascere a Betlemme, oggi luogo di culto per molteplici religioni, ma allora semplice cittadina. Dunque re Erode decise di prendere tempo, e di mandare i tre astrologi ad assistere alla nascita per raccogliere informazioni su questo re appena nato.
Infatti li convocò in segreto e disse <>. I Magi accolsero di buon grado la missione, sospinti dalla curiosità, e partirono guidati dalla stella cometa. Dopo averli condotti a sud della capitale, la stella si fermò, proprio nei pressi della città di Betlemme. I Magi gioirono, ma rimasero stupiti quando notarono di essere arrivati
davanti ad una misera stalla, circondata da alcuni pastori con le loro misere greggi, e risonante dei versi delle bestie. Tuttavia si avvicinarono, e furono lieti di vedere nella stalla una coppia dall’aspetto semplice, come una qualsiasi altra di quel popolo, che festeggiava la nascita del loro bambino, riposto in una mangiatoia.
“Quel bambino era forse… Gesù?”.
“Esattamente.”
“Quindi una figura così importante per voi umani era nata in una mangiatoia?”.
“L’importante non è come si nasce, ma come si vive. Non sei d’accordo?”.
“Assolutamente sì. Perdona l’interruzione, continua pure.”
“Allora i Magi si avvicinarono a quell’umile famigliola, e si prostrarono ai piedi del bambino appena nato. Poi presero dai loro forzieri – rammenta che non erano poveri vagabondi, ma uomini di grande importanza e ricchezza – oro, incenso e mirra.”
“Quegli oggetti non erano estremamente costosi e rari al tempo?”
“Sì, lo erano.”
“E come mai li hanno regalati ad un bambino che non si era nemmeno potuto permettere di nascere in un edificio vero? Come avrebbe mai potuto ricambiarli?”
“Non tutti i doni devono essere ricambiati, entità. Tuttavia, quei doni che offrirono i Magi erano roba da poco in confronto a ciò che avrebbe donato quel bambino, non a loro, ma a tutta l’umanità.”
“Ovvero?”
“Quel bambino, una volta diventato il Gesù che tutti conoscono, avrebbe versato il suo sangue in sacrificio, offrendo la salvezza dal male di questo mondo. La sua morte avrebbe cambiato la storia, e da molti sarebbe stata interpretata come un dono d’amore verso gli uomini peccatori”
“Un dono d’amore? Che storia meravigliosa! Potrebbe far ben sperare per il destino di voi
umani.”
“Eppure, la vicenda dei Magi non finisce qui. E soprattutto non finisce “bene”.
“Come mai? Continua, continua.”
“I Magi non tornarono mai da Erode: vennero avvertiti in sogno da un angelo, e decisero di tornare alla loro patria passando per un’altra strada. Ma il re si sentì preso in giro, e per porre fine a questo cruccio, fece uccidere tutti i bambini dai due anni in giù nati nella zona di Betlemme.”
“E perché? Cosa c’ entravano così tanti bambini con Gesù?”
“Sperava che, uccidendone il più possibile, avrebbe anche ammazzato il suo “rivale”.

“Dunque ha ordinato una strage di così tanti suoi cittadini innocenti, per eliminarne uno solo?
E come ha fatto Gesù a sopravvivere?”
“Un altro angelo apparve in sogno al padre umano di Gesù, Giuseppe, e gli ordinò di fuggire in Egitto. Così la sua famiglia scampò alla strage.”
“Ma alla fine, anche lui morì, seppur da adulto.”
“Tutti noi uomini moriamo.”
“Giusto, è vero. Ma perché quell’angelo che ha avvertito solo Giuseppe, non ha fatto lo stesso anche con le altre famiglie che rischiavano di perdere un figlio?”
“Questo non lo so.”
“Quindi, decine se non centinaia di bambini sono morti solo perché Erode temeva che potessero usurpare il suo trono. Quanto sangue potete far versare voi umani, per la vostra
sete cieca di potere?”
“Neanche questo lo so”.

Il sultano al-Malik al-Kamil e l’imperatore Federico II di Svevia.
“Un altro esempio di dono che posso raccontarti, per aiutarti a capire questa strana umanità, è quello che vede coinvolti l’imperatore Federico II di Svevia e il sultano d’Egitto al-Malik al-Kamil. Rispetto al racconto precedente, questo si svolge in un contesto storico molto diverso: sulla linea temporale umana, infatti, ci siamo spostati di 1150 anni più avanti, grossolanamente parlando. La società è cambiata, sono state fatte delle scoperte che hanno contribuito a un miglioramento sociale, alcuni ideali sono caduti e altri, invece, si sono affermati. Siamo, di fatto, nel bel mezzo del Medioevo, un periodo che alcuni uomini sono
soliti definire <buio, tetro, spento>… ma, sai cosa? Io non sono d’accordo. Per niente. Quest’epoca storica, pur con i suoi alti e bassi, è stata molto interessante, ricca di scoperte, come ti ho già accennato prima, ma anche caratterizzata da tristi scenari”.
“Tristi scenari? Hai intenzione di raccontarmi qualche avvenimento infelice, per farmi commuovere?”. “No, non è quello il mio scopo, anzi, tutt’altro: voglio, infatti, essere il più trasparente possibile con te, così da non metterti in una condizione tale da poter fraintendere il messaggio che ti voglio trasmettere. Come ti stavo dicendo, sono molte le motivazioni per cui dobbiamo guardare al Medioevo in modo positivo, ma ci sono certi fatti che non possiamo assolutamente ignorare. Uno di questi, quello a cui mi stavo riferendo poco fa, è il fenomeno delle Crociate. Ne hai mai sentito parlare? A giudicare dal tuo silenzio mi pare di
capire di no. Ebbene, posso iniziare il mio racconto partendo proprio dalla definizione di questo tragico evento. Le Crociate sono state delle vere e proprie guerre, promosse dalla Chiesa e rivolte contro vicino dominio islamico, individuabile, più o meno, nei territori attuali della Turchia, dell’Egitto
e della Tunisia. In totale ce ne sono state otto; sono state combattute in un periodo che va, all’incirca, dall’XI al XIII secolo e tutte quante si sono accanite contro il pericolo rappresentato dai Musulmani: in base alle motivazioni fornite dalla Chiesa, per incentivare la partenza a questi eventi di massa: gli Islamici erano responsabili dell’assoggettamento della comunità cristiana nei territori della Terra Santa e anche in quelli di Gerusalemme, città che era completamente sotto il loro diretto dominio e che, quindi, necessitava di essere riconquistata e riportata sotto l’ala del Cristianesimo. Per questa causa hanno combattuto
moltissime persone, provenienti da contesti sociali differenti l’uno dall’altro: in queste “processioni-pellegrinaggio” era possibile vedere poveri vestiti di stracci e armati di bastoni, ma anche aristocratici in groppa ai loro cavalli e con in mano delle spade forgiate dai migliori armaioli della loro zona. Quello che, però, mi fa più rabbrividire, è la presenza di persone politicamente riconosciute e di spicco, alla guida di queste violenze.
Stiamo parlando di personaggi come papa Urbano II, il re di Francia Luigi VII e l’imperatore Corrado III, papa Gregorio VII, l’imperatore Federico Barbarossa, il re di Francia Filippo II Augusto, il re d’Inghilterra Riccardo Cuor di Leone, papa Innocenzo III, Onorio III, papa Innocenzo IV, Giacomo I re d’Aragona, Luigi IX il Santo e, infine, Edoardo I re d’Inghilterra.
Quelli appena citati, sono soltanto una manciata di nomi dei principali sostenitori di questo abominio. Sai quante persone, sia musulmane sia cristiane, sono morte in occasione di questa strage?”.
“Credo qualche centinaia. Non penso che gli umani siano così terribili da far sgorgare del sangue prezioso, pieno ancora di vita, per una questione di religione e di non accettazione della diversità…”.
“Ti sbagli, entità. L’umanità è stata in grado di versare il sangue di milioni di persone per quelle cause che hai appena elencato: i Musulmani erano diversi e possedevano delle cose che facevano gola alla Chiesa. L’unico modo che aveva per ottenerle era quello di procedere con metodi violenti, non curandosi di tutte quelle vite che sarebbero state stroncate e di tutto quel sangue che sarebbe stato versato. Non ci sono, però, soltanto cose negative – come la morte e lo spreco inutile di sangue dal valore inestimabile – legate a questo evento storico, ma anche cose positive, seppure in minoranza.
Infatti, sullo sfondo di queste violenze assurde, due persone hanno cercato di calmare gli animi dei fedeli di queste religioni, provando a dimostrare quanto la convivenza credo fosse possibile e benefica per entrambi.”
“Parli di Federico II di Svevia e al-Malik al-Kamil?”
“Proprio loro: l’imperatore del Sacro Romano Impero, di religione cristiana cattolica, e il sultano d’Egitto, ovviamente musulmano. I due erano legati già da un profondo senso di amicizia, che aveva radici nel periodo precedente alle Crociate, il quale si è fatto, però, più presente di fronte a tutte queste morti: c’era infatti, da parte di entrambi, un forte bisogno di testimoniare la loro amicizia, l’unico modo per far che le Crociate non erano necessarie, perché i loro due popoli potevano coesistere senza nessun problema. Con questa intenzione in comune, i due si incontrano, appunto, e si scambiano vicendevolmente dei doni, simboli
delle loro rispettive realtà: al-Malik al-Kamil dona a Federico II un elefante, mentre l’imperatore consegna al sultano un orso bianco. E’ un comportamento che a noi, oggi, sembra strano e anacronistico, ma, in realtà, per l’epoca era molto importante…”
“Perché quando c’è una divisione col sangue, e non un unione con quest’ultimo, si può
cercare di porre rimedio a questa lontananza con un dono, di qualunque natura esso sia?”.
“Proprio così”.

Ed oggi.
“Entità, posso ancora portarti questo ultimo esempio come spiegazione del significato della parola donare. Ti racconto la storia di un uomo, quasi vicino alla mia epoca, per dimostrarti che anche dopo la più violenta delle tempeste, torna sempre a splendere il sole.”
“Ti ascolto.”
“Accese la tv con fare svogliato. Si abbandonò pigramente sul divano, portandosi alla bocca delle patatine fritte. Era stata una delle tante insignificanti ed eterne giornate che da qualche tempo ormai caratterizzavano la sua vita. Si sentiva svuotato interiormente. Senza prestare troppa attenzione, cambiò più volte canale. Nessun programma catturava il suo sguardo. Ad un certo punto apparve sulla scena un edificio, imponente, quasi ingombrante, che crollava rovinosamente al suolo. In quel momento venne come attraversato da una scarica elettrica.

La voce della giornalista suonava come amplificata da mille megafoni. Quell’immagine gli rimase impressa nella mente. Macerie, confusione, disperazione. Inferno. Rimase atterrito. Era tutto così lontano e surreale. <>. Di solito riusciva a sopportare la vista di scene drammatiche, ma quella volta era diverso.
Qualcosa dentro di lui si mosse, senza che potesse fare niente per fermarla.
Un fiume impetuoso di ricordi lo investì in pieno, mentre si accasciava sul divano e le immagini della televisione si susseguivano senza tregua. D’improvviso gli tornò in mente il suo piccolo paesino nel centro Italia, che era stato costretto ad abbandonare a causa della stessa tragedia. Il solo pensiero di rivedere quel posto generava in lui un terribile senso di nausea.
Il terremoto avvenne la sera tardi. Lui e la figlia, che aveva poco più di due anni, condividevano la stanza. Sentì un rumore sordo e tutto cominciò a tremare. Si destò immediatamente. In preda all’ansia, prese la bambina in braccio e si gettò in un angolo riparato della stanza. Il cuore gli pulsava e presto il vecchio lampadario crollò sul letto in cui poco prima stava dormendo. D’impulso strinse quel corpicino ancora più vicino al petto e intanto cominciava a svegliarsi e ad agitarsi. Sussurrò parole di conforto, forse più per sé stesso che per la piccola. La polvere cominciò a turbinare tutt’intorno. Il mondo crollò con un
unico grande boato. “Proteggila proteggila proteggila”. Strinse gli occhi. Il confine con la realtà si fece più labile. Svenne.
Ore, giorni, anni. Il tempo aveva perso la consistenza. Non sapeva dire quanto tempo fosse rimasto lì sommerso dal calcestruzzo.
Poi, ci furono una serie di mani dai contorni sfocati che si affaccendavano sopra di lui. Ben presto la realtà divenne più nitida. La protezione civile lo aveva tratto in salvo.
La bambina non ce l’aveva fatta. I volontari che lo avevano tratto in salvo l’avevano appoggiata su un lettino accanto al suo.
Vedeva ancora a malapena, ma il suo piccolo contorno cosparso di polvere era chiaramente distinguibile. Da quel momento non si sarebbe più ripreso.
Era rimasto settimane al confine tra la vita e la morte. Ad un certo punto, come quando si ritorna a respirare dopo essersi immersi completamente nell’acqua, si era destato dal torpore. Era disteso su un letto di ospedale, flebili raggi di sole penetravano attraverso le imposte delle grandi finestre. Per un attimo si guardò attorno, totalmente ignaro del motivo per cui era attaccato ad una flebo e del perché si trovasse in una stanza di ospedale piena di persone. Poi all’improvviso si ricordò. L’angoscia lo investì in pieno. Lui, un uomo insignificante, era sopravvissuto. Una trasfusione tempestiva lo aveva salvato.
Perché lui era ancora qui? Questa era la domanda che lo assaliva. Lei aveva ancora tutta la vita davanti e fu calpestata come un filo d’erba e il corpicino ora giaceva in fondo alla terra, inerme. La notte si svegliava di soprassalto, sentiva che le coperte lo soffocavano come le macerie e quando richiudeva
gli occhi, gli comparivano quelli della figlia, completamente vuoti e privi di umanità, che lo accusavano. Con il passare del tempo, l’unico modo per poter trovare un po’ di pace fu il lasciarsi completamente andare ad uno stile dissoluto fatto di eccessi. Quelle sensazioni non lo avevano mai abbandonato. Quegli occhi continuavano a fissarlo. Ma quella sera, gli erano tornate più vive che mai.
Il programma andava avanti. Alla fine anche lui era morto quel giorno. Lo colpì un appello della croce rossa “basta un piccolo gesto per poter salvare una vita, dona anche tu il sangue”.

Aveva provato per anni a fuggire da quell’avvenimento e da sé stesso. Dal senso di colpa che lo opprimeva e dal loop delle sue cattive abitudini… ma anche in quel frangente, il suo piccolo fantasma lo perseguitava. Di sicuro non era mai stata una persona eroica o coraggiosa, non avrebbe avuto lo stomaco di diventare operatore umanitario… forse però avrebbe potuto fare una cosa così semplice, che alla fine gli aveva salvato la vita.
Da quegli avvenimenti sono passati ormai più di due anni: adesso conduce una vita ordinaria.
Il ricordo della figlia pallida e sporca della polvere che aveva coperto la sua vecchia casa è ancora vivo nel suo cuore, ma nonostante ciò continua imperterrito la sua esistenza. Decise di cambiare lavoro e vita, siccome la sua era diventata insostenibile.
Prese la decisione di chiedere aiuto ad una psicologa, e dopo un lungo percorso si sentì finalmente pronto a cambiare direzione: una sua conoscente che lavorava come insegnante di sostegno per bambini in difficoltà e nel tempo libero si dedica attivamente al volontariato in ospedale, che gli offrì un posto come animatore per i centri diurni e gli ospedali. Ogni cinque mesi si reca nel reparto del pronto soccorso e dona il suo sangue: ha scoperto di essere del gruppo 0-, ovvero è possibile che esso venga trasfuso a qualsiasi persona bisognosa, per questo sente la necessità di donare così frequentemente.
Durante l’ultima gita scolastica a Roma, dove era l’accompagnatore di una tenerissima bambina di origini turche, mentre spiegava che cosa significasse donare il sangue, si è sentito porre una domanda molto curiosa da uno dei suoi studenti: gli era stato chiesto infatti “quanto si guadagna a donare il sangue? Dopotutto io do una cosa mia a qualcun altro, quindi cosa mi danno in cambio??”.
Gentilmente, lui le spiegò che il significato del dono non è quello di essere contraccambiato, ma è la volontà di chi lo fa di rendere felice chi lo riceve.
“E’ molto più semplice donare ad una persona sconosciuta il tuo sangue rispetto a trovare il regalo giusto per la festa della mamma”, ha concluso, sorridendo complice ad una maestra che cercava di richiamare i bambini che correvano per le strade romane.
“Hai altri dubbi?”
“Grazie per le tue risposte e per il tuo tempo. So che è molto prezioso per la vostra specie.”
“È stato un onore ed un piacere.”
“Non dubitare che ci vedremo di nuovo. La vostra civiltà è molto interessante”
“Sempre a disposizione.”

E in conclusione…. L’ultima parola alla poesia.
Abbiamo citato dei racconti, ne abbiamo persino inventato uno.
Crediamo, però, che niente meglio di una poesia possa suggellare le nostre riflessioni. E una poesia contenuta in un libro straordinario, di un autore altrettanto straordinario: Il Profeta (1923) di Kahlil Gibran (1883-1931), libanese di religione cristiana, scrittore indifferentemente in arabo e in inglese, strabiliante dimostrazione della perfetta conciliazione nella stessa persona di fedi e di culture diverse. In quel testo, vi è una lirica proprio dedicata al dono di cui ci limitiamo a citare alcuni versi, senza commentarli perché riteniamo che, davvero, non ci sia bisogno di nessun commento:

Voi non date che cosa di poco valore quando date qualcosa dei vostri beni.
È quando date qualcosa di voi stessi che date veramente. […]
Ci sono quelli che danno poco del molto che hanno,
e lo danno per avere un riconoscimento

e questa loro intenzione vanifica il loro dono.
E ci sono quelli che hanno poco e danno tutto.
Questi sono colori che credono nella vita e nella sua generosità
e il loro scrigno non è mai vuoto. […]
È bene dare quando vi viene chiesto,
ma è ancora meglio capire e dare spontaneamente
quando nulla vi viene chiesto. […]
Fate attenzione a che voi stessi meritiate di essere donatori e strumenti del dare.
Perché in verità è la vita che dà alla vita – mentre voi che vi credete donatori,
non siete che testimoni.